La volta scorsa nella mia newsletter ho scritto che avrei parlato di privilegio. È un argomento molto complicato, ma ci proverò.
Il privilegio è invisibile ma anche tangibile e radicato. Inoltre, è interpretabile.
Partiamo dal negativo del rullino: basta essere tra quelli che si definiscono intellettuali, aborrire il denaro (perlomeno apparentemente) per essere parte di un’élite culturale. Basta essere un founder che ha raccolto denaro per essere parte di un’élite imprenditoriale, basta essere nato in una certa famiglia, in un certo luogo. Eppure, allo stesso tempo, basta anche non essere parte di qualche cosa per esserne e/o sentirsene esclusi.
Mi è capitato di studiare il fenomeno dei populismi e comprendere che l’astio generalizzato nei confronti di gruppi ai quali si sente di fatto di non appartenere è all’origine di una visione distorta del privilegio che invece potrebbe essere sinonimo di responsabilità con riferimento al proprio gruppo di appartenenza. Non voglio con questo dire che talune élite non esistano o che non escludano sistematicamente alcuni gruppi e che ciò non abbia un impatto sistemico, anche molto grave, in alcuni casi. Ma se si guarda davvero alla fonte, la questione scatenante non è il “classismo”, che risiede nell’ambito dei pregiudizi, quanto l’inconsapevolezza e la mancanza di vasi comunicanti, l’altra faccia del classismo.
Chi spara a zero sul privilegio non è consapevole prima di tutto del proprio. Il concetto di privilegio (di qualsiasi tipo) si sposa e si intreccia con il concetto di gruppo e il concetto di appartenenza e, se si è in grado di vederlo e di riconoscerlo, è possibile accrescerlo di nuovi significati. Se si lascia spazio a questa percezione si scoprono numerose questioni interessanti, ma ciò richiede dialogo e attenzione (che, come diceva Simone Weil, è la forma più rara di generosità).
Alcune volte rapportarsi al privilegio con categorie morali negative a priori, significa aver sviluppato quella forma di non riconoscimento di vantaggi che l’altro potrebbe avere in quanto esclusi a noi. Questa emozione ci tocca personalmente (chi più chi meno) perché ricade nella sfera dell’invidia. Il volere, cioè, che l’altro non abbia ciò che a noi è precluso. Il concetto sociale di invidia rappresenta una problematica molto complessa e su questo aspetto consiglio un libro particolarmente interessante che potrebbe far cambiare percezioni troppo scontate in questo ambito: “Cenerentola e le sorellastre”. Credo quindi che occorra davvero grattare la superficie e analizzare cosa c’è sotto ai pregiudizi e alla concezione negativa di privilegio o all’invidia. La bella notizia è che, forse, c’è qualche cosa là sotto.
Gli esseri umani trovano sempre nuove regole (quindi nuovi linguaggi) per includere elementi estranei in gruppi consolidati oppure per generare nuovi gruppi e quindi inventano le regole del gioco con le quali si può partecipare o meno alle iniziative del gruppo in questione, di fatto prendendovi parte. Queste regole giustificano gli interessi o le ambizioni di quel gruppo e lo espongono anche alle ambizioni e interessi di altri gruppi, contrastanti oppure simili. Nel primo caso si ha competizione, nel secondo alleanza, nella maggior parte dei casi un mix. Per esempio, pensando al linguaggio, la meritocrazia rappresenta una di queste regole del gioco per definire l’appartenenza ad una certa élite educativa, ne parla Michael Sandel nel suo libro dove invita a non dare per scontata la bontà della meritocrazia.
Ma, tornando alla domanda iniziale, come mai se è così palese, è anche così invisibile, il privilegio? Quale componente più luminosa del negativo del rullino ancora non visualizziamo?
Io credo che l’altro lato della medaglia del privilegio sia l’appartenenza; poco sotto spiegherò perché è estremamente rilevante anche nel mondo venture capital, che dal mio punto di vista è un gruppo che, per via di alcune caratteristiche, ha un elevato potenziale di potersi arricchire in termini culturali.
L’appartenenza spiega in modo meno pregiudizievole il funzionamento dei gruppi umani complessi, però va compresa. Per comprendere che cos’è l’appartenenza basta osservare uno dei gruppi a cui si appartiene e fare le considerazioni relative a ciò che ci lega profondamente a quel gruppo. Esplicitare la propria identità in termini di appartenenza talvolta può aiutare nel permettere di evolverla. Questa costellazione di relazioni è ciò che ci “dà forma” e ci fa muovere nel mondo.
Ecco qui un esercizio semplice:
- gruppo 1 _______
- gruppo 2 _______
- gruppo 3 _______
Tra i miei gruppi di appartenenza ad esempio ci sono la scrittura, il teatro, Noventa, la famiglia nella quale sono cresciuta e la Francia. So che quelli sono i legami più forti che possiedo, poi ce ne sono molti altri, tra cui ambienti “meritocratici” o startup, l’ambito politico, la mediazione (dove ho uno spazio di azione). E comunque, spero così di avere specificato la differenza tra l’appartenenza e il fare parte di “qualche cosa”.
Un giorno ho sentito una bella frase di Ginevra Elkan che diceva: “ad un certo punto ti rendi conto da dove vieni e dove vuoi andare”. Ogni tipo di privilegio è anche una responsabilità e sapere da dove si viene è fondamentale per avere la libertà di andare verso la creazione della nostra personale costellazione.
Non vorrei certo imporre ai poveri lettori di questi articoli e newsletter uno dei miei momenti “Silviathustra”, però credo che sarebbe davvero generatore di serenità per tutti il ricominciare a guardarsi i piedi e capire dove appoggiano e in che luoghi desiderano camminare. Si parla spesso di purpose, ma di cosa si tratta? Secondo me senza sentire dove poggiano i tuoi piedi non sai dove è il purpose.
Quasi dimenticavo, nel mondo venture capital è fondamentale comprendere le appartenenze e vedere il positivo del rullino o la foto stampata con la congiunzione delle due cose. Ovvero, essere consapevoli che ognuno di noi porta delle peculiarità e che il privilegio è anche poter attingere a fonti diverse e complementari. In termini identitari, una startup è un gruppo che vuole creare nuove alleanze e nuove regole e che non è composta da robot (al massimo li produce se è nel settore della robotica) ma da esseri umani che hanno le loro appartenenze di provenienza e che, anche, usano il privilegio che possiedono o che sviluppano per avere un certo impatto nel mondo in linea con le appartenenza degli individui coinvolti.
Essere quindi consapevoli dei confini entro i quali ci si muove è di grande valore per una realtà che deve essere quanto più cosciente del proprio percorso di sviluppo per dosare opportunamente la definizione dei propri confini, per preservare la sua conservazione e per affrontare il cambiamento. Essere consapevoli dell’impatto che può avere tutto ciò significa benefici per tutti. Forse, anche quelli che stanno là fuori da più tempo. Perché come dice qualcuno di mia conoscenza, quella dell’appartenenza è una vocazione dell’essere umano. Bisogna deciderne solo che farne.
Dedicato ai miei amici, ricchi di spirito. E anche ad un mentore che mi disse che il mio continuo blabla era un chiaro tentativo di scrittura. Chi l’avrebbe mai detto, forse non ero pienamente consapevole nemmeno io di appartenere a quel gruppo di persone che per esprimersi, scrivono.