La mia inchiesta sull’eguaglianza risale a molto tempo fa, a quando invidiavo i miei amici maschi perché potevano fare le cose più divertenti. A me insegnavano ad essere docile, a loro ad essere forti. La mia visione delle cose ha poi subito uno sviluppo importante quando ho vissuto per due anni in Francia e quando ho osservato mia sorella battersi per la rappresentazione femminile negli ambienti tech. Molto di ciò che prima mi sembrava impossibile, è diventato possibile, previo lo scardinamento di alcuni pesanti elementi dello status quo, ormai radicati nella mia struttura mentale. Poi, ho provato a riapplicarlo al mio contesto di riferimento. E ho scoperto che questo è un lavoro individuale, anzitutto, e che questo lavoro di leadership richiede molto tempo e molti partecipanti, una sorta di attività corale.
Parto da un fatto: da quando ho iniziato a lavorare non sono riuscita a sedermi ad un tavolo senza essere, la maggior parte delle volte, l’unica donna. Soprattutto quando si saliva di livello. E quando ho iniziato a frequentare il mondo del venture capital, che pensavo essere innovativo, ho scoperto le stesse identiche dinamiche di sempre. Questa resistenza verso le figure femminili mi sembra, quindi, più che altro, fare da specchio ad un qualcosa di più strutturale.
Alcuni amici mi dicono “non fare la femminista” oppure “guarda che basta essere brave”, altri quando mi lamento troppo mi dicono “qui hai perso la mia attenzione”, come se il mio obiettivo fosse mantenere alta la loro attenzione… Fosse così semplice, insomma… Ho avuto sempre cura, in fondo, per questo tipo di resistenze, perché ritengo che stiano lì a segnalare qualcosa.
Nel mio piccolo, ho sempre cercato di far presente, il più possibile, l’elefante nella stanza perché mi sembrava e mi sembra il primo passo verso la consapevolezza. E tuttora, quando mi ritrovo in riunioni di soli uomini, quando vedo slide con soli visi maschili lo faccio presente, sembra poco, ma dal mio punto di vista non lo è. Di fatto, è anche una delle poche cose che si possono certamente fare. Trovare il connubio tra provocazione e dialogo. Il mio problema non è con la punta dell’iceberg, perché per fortuna ci sono esempi di donne di successo, il mio problema è con l’iceberg tutto. Da qui, l’inclusione.
La prima soluzione che mi sembra possibile quindi è cercare un’alleanza tra il maschile ed il femminile e provare a seguire chi riesce a modo suo in questo, non senza fatica e partendo da sé. Ecco perché mi arrabbio se vedo una slide con soli visi maschili. So che di fatto il dialogo avviene talvolta a suon di sani conflitti, ma forse, sarebbe più semplice se questa tematica fosse abbracciata da più uomini.
Spesso ai miei amici uomini, che frequentano il mondo del venture capital e che hanno soltanto sfilato la cravatta e infilato la t-shirt, chiedo: vi state occupando di includere e comprendere le esigenze del femminile? Mi sembra una domanda davvero rilevante da porsi a livello individuale e di sistema, sennò sarà difficile integrare i generi, anche se dovessimo avere tutti i bandi per l’imprenditoria femminile del mondo a disposizione.
La seconda soluzione che mi sembra possibile è provare a ragionare per spazi concessi. Ecco perché dopo essermi arrabbiata se vedo una slide con soli visi maschili, dopo averlo fatto presente, scelgo in quali progetti impiegare il mio tempo. Mi rendo conto che di fronte a me ho io stessa spazi di scelta e che posso scegliere di andare dove c’è più spazio e dove posso avere un impatto maggiore. Tra una occasione lavorativa ed un’altra, scelgo sempre quella dove mi è accordato il maggiore spazio. Non è quello che fanno tutti? In America si dice vote with your money, qui direi “con il tuo tempo”, che è certamente un bene finito (ancora di più per il femminile, dato il carico maldistribuito del lavoro familiare).
E infine, mettiamocela via, perché è un lavoro lungo che richiede di ripensare ad alcune strutture che fanno parte del nostro modo di vivere comune da secoli. Diceva Simone De Beauvoir che “nessuno è più odioso con le donne che un uomo inquieto per la sua virilità” e che quindi la virilità è “una costruzione sociale fragile”. Forse nessuna è più odiosa con gli uomini che una donna che non trovi il modo di fare i conti con l’impossibilità percepita di cambiare certi retaggi. Io, solo di questo ho paura. Che non saremo in grado di comprendere le reciproche diversità, di abbracciare il cambiamento e se mi arrabbio è solo quando non vedo abbastanza spazio accordato al dialogo. La vera domanda che ho io allora è: possiamo accettare le fragilità maschili, tanto quanto quelle femminili?
Esprimere i propri dubbi e le proprie domande forse è una postura che si potrebbe provare a tenere su questo tema. Mia mamma mi ha sempre detto: si fa quel che si può. Riformulerei, ora che ho ormai superato lo scoglio dei 30 anni (che ai miei occhi sembrava enorme tanto quanto ora mi sembra enorme l’elefante sociale di cui parlo in questo articolo): si fa tutto quel che si può, in base a ciò in cui si crede…!