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Dopo la difficoltà di partorire l’articolo della settimana scorsa, questa settimana mi sono detta che sarei stata più leggera. Quindi ho aperto il documento che ho in comune con le mie alleate di Kindanews – La voce dei Leader Silvia Castrogiovanni e Alessandra Rancati, dove mettiamo tutte le nostre idee e argomenti di cui sarebbe interessante parlare, una frase in particolare mi è balzata all’occhio: “l’aspetto psicologico del fundraising”. Sono certamente appunti dell’altra Silvia, mi sono detta. Però la mente continuava a tornare lì a quella frase, quindi ho deciso di addentrarmici. Nel farlo, mi sono venute in mente metafore di acqua e navigazione.

Quello che ho notato quando ci si avvicina ad una fase di raccolta fondi è che ci sono molti aspetti relazionali ed emotivi legati al fundraising. Di fatto, stai chiedendo a qualcuno di darti il suo capitale per portare avanti la tua realtà, di fatto è l’istituzionalizzazione di un’alleanza. Capisco, e un po’ me ne dispiaccio, che il linguaggio condiviso del fundraising sia accessibile ancora solo a pochi in Italia e mi è capitato di sentirmi dire da team di persone molto capaci, ma solo meno abituate al venture capital, “ma allora abbiamo bisogno di soldi? Non ce la facciamo con le nostre gambe?”. 

Nel VC in Italia, che è un mercato infinitesimale, ci sono varie scuole. Chi si ispira agli americani e quindi raccoglie grosse somme di denaro e chi spera di crescere ispirandosi ai padri dell’imprenditoria italiana per procedere con le sue gambe. Io faccio parte della prima scuola ma desidererei trovare il giusto mix e mi piacerebbe sfidare il modello americano, trovando una ricetta dove se cambi solo qualche ingrediente viene ancora più buona. 

Quello che fa la differenza tra questi due approcci è il metodo e la velocità della competizione e della fruizione dei consumatori. Il mondo nel quale viviamo oggi predilige il primo approccio, anche se io ritengo che integrare anche il secondo ripaghi sul lungo periodo. Credo, quindi, che siano entrambi due cappelli da mettere in testa e che ci si differenzi solo crescendo organicamente e trovando strategie per effettuare dei sorpassi quando è più tattico farlo, chiedendo il supporto a pesci più grossi. Il pesce piccolo nuota vicino al pesce grosso, quindi deve essere molto scaltro, insieme alla sua banda di pesci e di alleati. Mi viene in mente Nemo.

Il fundraising e la raccolta di capitali è poi un metodo che presuppone delle assunzioni: la prima assunzione è che tu con quel capitale cresca e generi valore (anche) per l’investitore, la seconda è che tu ne abbia davvero bisogno, altrimenti non lo chiederesti. Il bisogno deriva certamente da una necessità di cassa e questo è quello che si chiama, nel linguaggio tecnico, “Cash Flow”, che quando va a zero, ciao, kaput. E tutta la gestione si svolge intorno a questo limite intrinseco della fallibilità. 

Ma l’altra esigenza, per me sempre sottovalutata, è la necessita di cambiamento ed evoluzione che una scelta di questo tipo porta con sé. Nell’allearsi con nuove persone, che siano investitori solo di capitali o soci che portano competenze, qualcuno si aggiunge al tavolo e qualcosa di vecchio si perde. Saranno quindi messe alla prova da subito le capacità di leadership del founding team e se c’è qualche scoglio, emergerà. Se si è bravi a superare quello scoglio senza incagliarsi e quindi a vederlo prima che si avvicini troppo, poi comincerà la navigazione. 

Buon viaggio!

Silvia Manduchi

J’écris, donc je pense. Je pense, donc j’écris. Un cercle (pas si) vicieux.

Silvia Manduchi